In tempo di crisi si risparmia su ogni cosa, ma proprio non si riesce a fare a meno di sprecare parole. Ne avremmo un gran bisogno, eppure non siamo in grado di fare economia di linguaggio: la lingua, al contrario del denaro, pare non esaurirsi mai. La nostra è la società degli eccessi e questo lo si legge anche nel nostro modo di parlare: i discorsi sono ricchi di frasi superflue che non fanno altro che appesantire la comunicazione, dandoci però l’illusione di saper utilizzare un linguaggio colto che spesso non serve a nulla.
Se da una parte la velocità dei nuovi mezzi di comunicazione ha costretto il linguaggio comune a dimezzarsi, stringando gran parte dei suoi vocaboli di uso quotidiano, dall’altra una delle cose in cui la lingua ancora ama perdersi in chiacchiere è la burocrazia. Il burocratese è lo stile espositivo adottato dagli enti amministrativi che intendono comunicare con i cittadini, e sebbene il suo scopo sia quello di spiegare norme e regole alle persone, finisce per essere un calderone di termini obsoleti, espressi in forme linguistiche ricercate e di difficile comprensione.
Il linguaggio burocratico, come tutti i linguaggi di settore, utilizza un registro forbito anche quando non serve. Ci sono frasi troppo lunghe con troppe subordinate, ed è pieno di formule ridondanti. Si preferisce utilizzare termini arcaici (testè, altresì, all’uopo, codesto) o dotti (ottemperare, espletare, istanza) invece di vocaboli ad alta frequenza d’uso. Le numerose frasi in forma passiva (“la data è stabilita dalle autorità” invece di “le autorità stabiliscono la data”) sporcano inutilmente la fluidità del testo, così come tutte le doppie negazioni (“non è inammissibile” invece di “è ammissibile”; “non si può non considerare” invece di “si deve considerare”). Queste forme espressive sono totalmente inutili e sostituibili con strutture più brevi e di immediata comprensione.
Sembra che i burocrati abbiano così tante parole da non sapere più come sperperarle. Ci sono troppe frasi impersonali come “si fa presente la necessità di..” o “si fa obbligo di…” che non permettono sempre una chiara identificazione del soggetto e del destinatario del messaggio; e c’è un eccessivo abuso del participio presente con funzione di verbo, per esempio: “la circolare avente oggetto” al posto di “la circolare che ha per oggetto”.
Ma anche i comuni parlanti possono cominciare a ridurre gli sprechi: aboliamo l’uso spropositato degli avverbi “assolutamente”, “sicuramente” e “ovviamente”, tutti sostituibili con un semplice “sì”; e via tutte le locuzioni congiunzionali tipo “nel caso in cui”, “nel momento in cui”, “sempre che”, rimpiazzabili da un banale “se”. Insomma, cominciamo a modernizzare la nostra lingua un po’ troppo barocca e diamole una linea più snella e alla portata di tutti.
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La lingua italiana è tra le più belle che esistano, ha un bel suono, una bella ritmica oltre che un vocabolario molto ben fornito; La crisi sicuramente non risparmia l’utilizzo di tanti di questi vocaboli i quali sono trasformati all’occorrenza per usi impropri, dunque lo stop lo sottoscrivo. Quello che però non vorrei mai che finisse è l’amore di origine per la nostra lingua che, secondo me, deve continuare ad avere i suoi canali di espressività, seguendo regole molto semplici di comprensione e non regole di distorsione del linguaggio. Mi piace ancora sentir parlare un medico piuttosto che uno storico o un avvocato che usano la terminologia che gli appartiene e mi piace ancor più quando c’è la capacità di rendere comprensibile anche all’interlocutore medio, senza necessariamente stravolgere tutto. Per chi come me è sempre alla ricerca di una buona ed efficace comunicazione in tutti i campi, è importante mantenere la varietà dei vocaboli, ma come già detto, ognuno al posto giusto. Grazie Manuel, perchè condivido molto questo tuo bellissimo articolo.
AnnaMaria